Conoscere, a fondo, i codici esistenti. Sapere di essere (per adesione? introiezione? o automatismo? o magari per sottomissione?) in simbiosi con i codici esistenti. E volerne forzare e scardinare la struttura. Un atto, il forzare, lo scardinare, di lucida volontà. Un atto che rivendica il bisogno, ma anche il diritto, di emanciparsi da codici e struttura. Un atto che si traduce in progetto e progettualità. In creazione. Cosa che succede in Untitled#, l’ultima raccolta poetica di Simonetta Longo edita da puntoacapo...
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Simonetta Longo esordisce con una raccolta organica di versi, Notturlabio, ancorché sue anticipazioni siano state pubblicate in antologie e la sua opera sia pertanto già nota al pubblico e all’attenzione di poeti e addetti ai lavori. E tuttavia leggere in successione l’intera silloge è altra cosa. Leggendo, quindi, e rileggendo i versi di Simonetta Longo se ne apprezzano le ricche qualità espressive e possono venire individuate con sicurezza fondamenta ed elementi caratterizzanti. Ed ecco allora che statuendo le opportune relazioni tra le singole parti e il tutto da cui l’opera è composta e in cui l’opera si articola e si rispecchia, ci si rende immediatamente conto che il silenzio sia molto più che una semplice suggestione, una condizione transitoria, il richiamo — per quanto potente — a una dimensione aurorale della poesia. Tutte cose ugualmente presenti, beninteso, ma che non esauriscono affatto la ricca varietà meditativa che la parola silenzio porta con sé. L’ispirazione poetica coltivata da Simonetta Longo proviene dal silenzio, attraversa il silenzio, genera silenzio. Tutto questo è però reso possibile dalla tenue atmosfera di sogno da cui è pervasa l’opera e dalla profonda relazione che la poetessa ha inteso elaborare con se stessa, nella ricchezza della propria vita interiore, attraverso la consapevole ricerca della solitudine, che traspare in maniera implicita e non di rado anche esplicita dalla fitta trama dei versi da cui Notturlabio è composto. Basti dire che la parola silenzio ricorre nel testo ben ventotto volte, con la precisa intenzione di sostenere della realtà quello che le parole della concretezza materiale non riuscirebbero a dire. Annota Simonetta Longo in uno dei versi più significativi dell’intera raccolta: «e tutto è silenzio». Ci informa la poetessa di questa sottile consapevolezza fin dalle prime battute della sua opera prima, in Notturlabio, il proemio che dà il titolo all’intera silloge. Perché, se tutto è silenzio, allora non è possibile affermare alcunché della sua costante presenza nel mondo in altro modo se non nominandolo ogni volta questo appaia, in ogni occasione se ne avverta il bisogno. Perché tutto ciò sia possibile, è necessario andare oltre i fatti, per abbozzare una qualche forma di comprensione, indicando del silenzio alcune delle sue qualità proteiformi. È necessario inoltre affermare il valore euristico del silenzio nell’impresa di riconoscere e nominare la realtà. Scrive Simonetta Longo nel proemio: «Vago da sola sulla terra / lungo le ferite della notte / cercando un passo nuovo / e tutto è silenzio / intorno / cerchi d’alberi / intrichi di rovi / misteri di nuvole sparse / come squarci al velo del buio». Riconoscere che tutto è silenzio, ci dispone opportunamente a fare nuove tutte le cose, «Allora — prosegue la poetessa — il mio occhio / è una spia d’infinito / e il notturlabio / […] il grande rivelatore / delle mie / previsioni dall’ombra». Il silenzio precede e supera il buio, lo comprende; entrambi sono tuttavia indispensabili a coloro che, come Simonetta Longo, vogliano giovarsi del notturlabio, al fine di trovare la giusta collocazione nello spazio e nel tempo di ogni singolo oggetto da cui la realtà è costituita; individuare nel tempo e nello spazio le coordinate del proprio sé poetico. Ecco che allora il notturlabio è necessario per costruire solide relazioni poetiche. A partire da questa prima e fondamentale considerazione sul significato del silenzio, desunta dal proemio — presumibilmente scritto in corso d’opera, se non proprio alla viglia della pubblicazione del volume — è ora possibile osservare come il silenzio si colloca e si configura nella poetica della poetessa salentina. Nella prima delle sei sezioni in cui si articola l’opera, Previsioni della vista, il termine silenzio occorre cinque volte. In particolare nella poesia Medusa la parola silenzio è situata nel verso di chiusura. Lo sguardo di Medusa pietrifica; l’uomo che guardasse la verità diritta negli occhi verrebbe trasformato in statua: persino la stessa Medusa non può guardare se stessa negli occhi, allo specchio. Possono però gli uomini schermare lo sguardo della gorgone proprio tramite lo specchio: lo specchio della poesia, perché questa ci restituisce l’immagine fedele, per quanto rovesciata, della verità. Recita così, in effetti, il verso che chiude la poesia: «avrò le mie vittorie / e potrò ancora ammaliarvi / prima d’incastonarmi come pietra / di silenzio». Come dire che se la verità lascia di sasso, lascia nondimeno ammutoliti, ammantati di silenzio. La verità proviene dal silenzio e genera silenzio. Nella poesia Delle essenze, alla sezione Previsioni dell’odorato scopriamo che il silenzio detta il ritmo del viaggiare, da fermi, attraverso i sensi. Così si esprime in proposito la poetessa: «Come Des Esseintes / in un viaggio da ferma / aspiro essenze orientali / ombreggiate di pepe e cinnamomo / al ritmo del silenzio». Il silenzio prepara e accompagna ogni nostra sensazione, rivelandosi, quindi, condizione propria del sentire, ben al di là della semplice relazione con il senso dell’udito, che pure c’è ed è viva e operativa. Se poi nelle Previsioni della vista il silenzio sembra assumere le solide sembianze della pietra, nelle Previsioni dell’udito il silenzio appare piuttosto della consistenza dell’acqua. Acqua di fiume, dell’oceano, in un canale: a seconda dei casi. Leggiamo in Finis Terrae: «Ho asciugato il silenzio / in attesa dell’Inquisitore / le fragole sono morte sullo stelo / ma l’Adriatico è lontano / per sentirne le urla / a Finis Terrae». Il silenzio è, questa volta, dalla consistenza umida, necessario alla navigazione, alla vita, per immaginare una nuova vita all’altro capo del mondo. Il silenzio diviene allora questione di vita e di morte, specie se prosciugato. In Libri dannosi, nella sezione Previsioni del gusto, scrive la poetessa: «Ti sei mangiata la notte / spalmata sul silenzio / sapendo che ti avrebbe / bruciato le viscere / ma ci sono piaceri attraenti / irrimediabilmente». La notte e il silenzio; la scrittura e la lettura: in una parola la cultura, che è lo spazio entro cui l’ispirazione della poetessa irrompe per agire con maggiore veemenza. Nella cultura occorre orientarsi, di notte, con il notturlabio, nel silenzio; scrivere e leggere libri che al limite possono essere dannosi, decifrare la realtà che emerge da un fondo di silenzio, ovvero lasciare che rimanga nella sua condizione di indeterminatezza. E poi c’è la notte, che viene spalmata sul silenzio, caustico. Nella lirica La ninfa d’acqua, nella sezione Previsioni del tatto, riecheggia il silenzio, in un clima da sogno, tra delicati rimandi e metafore, tutte al mondo liquido. Eccone una traccia: «Tu dormi / abbandonato splendore / non ti salveranno le stelle di fiume / dal mio agguato d’acqua / ignaro ti avvolgerò nelle mie onde / già fluisco e ritorno a me stessa / in un assalto di sete / ma tu dormi / tra fiori d’azzurro silenzio». Insomma, la poetessa lancia l’esca di una sinestesia per ribadire una volta di più che tutto proviene dal silenzio e tutto sembra fluire in direzione del silenzio. La parte per il tutto, mentre il tutto è ben lungi dall’essere un orto concluso. Il silenzio assume per Simonetta Longo la funzione “chenotica”, di svuotamento e successivo accoglimento dell’evento imprevisto, l’accettazione in chiave propositiva dell’errore come parte integrante della poesia e perciò stesso della vita. La poesia di Simonetta Longo si fa progressivamente apertura al mondo e mondo essa stessa, si configura perciò come autentica missione. In Le poesie-in-silenzio, alla sezione Il quinto senso e mezzo, è possibile ancora accostarsi a questi versi: «il poeta vorrebbe dormire / ma arriva il verso sbagliato / e gli tocca unirsi al silenzio / per riprendere il gioco». E poi, ancora, in chiusura della lirica: «finché il poeta non resta solo / la corda oscilla tra le mani / e si fa giorno». Se il verso non tocca le giuste corde, la comprensione della realtà diviene inadeguata. E tuttavia è sempre possibile redimersi, rimediare alle incomprensioni: facendosi uno con il silenzio, assumendone i rischi, contemplandone il volto. Occorre lasciare che il silenzio generi altro spazio dove muoversi e altro tempo dove abitare, dentro e fuori se stessi. Se è pur vero che ogni verso inadeguato svanirebbe con il sopraggiungere della luce del giorno, è altrettanto vero che non ci sarebbe giorno se non rimanessero da soli, il poeta e la sua poesia, a giocare il gioco del silenzio.
[1] QUANDO LA LUNA è QUINTADECIMA
Anch’io mi
farei il segno della croce / con la mano mancina alzandomi dal letto / quando
la luna è quintadecima (plenilunio) / farei buchi con le unghie ogni tanto / e
trasformerei le pietre in pane ne mangerei / anch’io me ne andrei / senza darlo
a vedere oltre lo Stromboli (lontanissimo) / Padre Figlio e Spirito Santo /
lascerei che la gente mi criticasse / facendo la volontà di Dio senza cercare
la lode.
Esitando questa sua opera prima, Notturlabio, Simonetta Longo traccia gesti nuovi e segni nuovi, in uno spazio che è vuoto, ma che viene tenacemente riempito di significati. Ed è così che la poetessa si protende, dalla penombra, fortezza priva di difese, annunciando previsioni; nutre quindi con cura e dedizione la propria creatività del cibo più prezioso e più nutriente. Cultura e natura caratterizzano e pervadono in effetti la sua opera, guidandone i passi fin dentro la comprensione del silenzio più eloquente. Fino a lambire quei luoghi dove non si avvertono più lo stupore e lo sgomento. Cultura e natura, non tanto e non solo a motivo del fatto la poetessa abbia tratto ispirazione per la propria visione poetica dalla squisita contemplazione di altrettante opera d’arte; questo, in prima approssimazione, il senso delle ecfrasi contenute nel testo. Ma vi è certamente di più e di meglio. Cultura e natura costituiscono la trama e l’ordito di una realtà proteiforme, difficilmente componibile in una sintesi dalla pur vaga pretesa di definitività. Cultura e natura possono allora variamente intrecciarsi con il silenzio, che è e rimane la materia primigenia della poesia. Di questa poesia in maniera del tutto particolare. Cultura e natura, ancora, danno sapore e consistenza alla vicenda umana. Nei versi di Simonetta Longo questa verità non solo viene riconosciuta e compresa, ma ne viene chiaramente e immediatamente indicata la centralità. Scrive in proposito la poetessa nel proemio: «Vago da sola sulla terra / lungo le ferite della notte / cercando un passo nuovo / e tutto è silenzio». Cerca un passo nuovo, Simonetta Longo, nella notte, da sola, e perché questo cambio di passo possa effettivamente realizzarsi è necessario riconoscere la stringente pervasività del silenzio. La condizione perché tutto ciò si realizzi è poi la solitudine, che, se cercata, voluta, amata diviene vieppiù foriera di senso. Ed ecco, quindi, che, se lo stupore e lo sgomento sono all’origine della scrittura della Longo, rappresentano nondimeno il momento in cui avviene il più significativo cambio di prospettiva. Scrive ancora la poetessa, sempre nel proemio: «Mi sgomentano / sussurri di foglie / da quando inseguo il sonno / invano / perché ho perduto le stelle / del tempo / e le parole». Le stelle del tempo e le parole possono venire smarrite, perse, dal momento la poesia è viaggio e ricerca, che toglie il respiro — e quindi le parole — e apre agli occhi e al cuore degli uomini sorprendenti prospettive. Il notturlabio è allora molto più che uno strumento a cui ci si affida per orientarsi, la notte, nei vasti spazi del mondo. Nelle intenzioni della poetessa diviene lo strumento che mette l’uomo nelle condizioni di orientarsi nei vasti spazi della poesia e della vita, dove la notte è l’ambiente entro cui muoversi, sempre che si possieda una interiorità strutturata e vigorosa. Strumento originariamente del genere di uso empirico, il notturlabio separa e al contempo unisce la poetessa al regno delle inquietudini da cui ella sembra avvinta. Vi è, cioè, contemporaneamente in atto, un disegno di intelligenza della realtà, sul piano dell’oggettivazione, che istantaneamente si intreccia e viene superato dalla comprensione intuitiva, che per sua natura è invece immediata ed evidente. Annota la poetessa nella poesia I pensieri: «Ci sono pensieri che covano attese / impossibili nelle notti insonni. / Pensieri reduci / da guerre dimenticate, / quando erano dati per morti.» La trama di questo intreccio a tratti si fa quindi trasparente alla visione degli uomini, mostrando quale sia il travaglio della creatività e quanto complesso sia questo stesso travaglio. I sensi allora si fanno più acuti e con la realtà viene instaurato un dialogo proficuo, per quanto non privo di asperità. Ed effettivamente, se i sensi della poetessa salentina sono nientemeno che cinque e mezzo, lo sono nella loro contestuale e anche residuale funzione conoscitiva rispetto al mondo. Il vuoto è quindi la condizione interiore necessaria per instaurare qualsivoglia relazione di unione poetica con la realtà, nella distinzione. Quando Simonetta Longo vede, allo stesso tempo fa esercizio di comprensione simultanea con tutt’e cinque e mezzo i suoi sensi. Vede, ma anche odora, tocca, immagina, gusta, intuisce, rimane interdetta. In Notturno, la breve e molto densa lirica che chiude la silloge, la poetessa elargisce in compendio la propria visione poetica: «Dormono le cime degli alberi e le radici, / i pieni e i vuoti, / e le pietre del lento fiume, / e le stagioni che ai sogni s’apprendono, e gli anni / e le ombre nei sentieri nel bosco assorto / Dormono le solitudini degli uomini, / placato sussulto d’attesa.» Su tutto si staglia l’attesa, che sigilla questo primo tempo della meditazione poetica della Longo per aprire alla prefigurazione del futuro, sebbene ancora in predicato. Natura e cultura possono allora coesistere in un’unica visione d’insieme, che però è di là dall’essere conclusa.
“Rinchiusa in un labirinto di vorrei abbandonavo la mia identità in un ripetersi di specchi il gioco infinito richiamava alla mente altre donne ma io? No io non c’ero nei riflessi dello specchio eppure ero nel cerchio... Dove la notte ti porta e non vedono gli occhi dove l’attesa è un proiettile sospeso dell’essere-per-la-morte dove una donna si finge uomo che si finge donna drag queen in marsina per espiare se stessa dove la vendetta danza un valzer sul pavimento a scacchi un due tre un due tre e non più tenera è la notte…I pensieri fanno capolino agli angoli di un discorso interrotto. Sono rane che saltano fuori da pozzanghere roventi, a volte. E fuggono via. Ci sono pensieri che covano attese impossibili nelle notti insonni”… Encomiabile prova di composizione lontana dal “poetichese”, i versi della Longo sono un esito felice dell’idea di conferire dimensione letteraria alla propria soggettività, supportata da un labor limae di consumato mestiere. Scevra dallo sperimentalismo astruso, la raccolta sussurra all’orecchio il suo proposito: le diverse esperienze dei cinque sensi danno il “la” per i presagi poetici dell’autrice. Con un titolo dal sapore esotico (il notturlabio è uno strumento di orientamento notturno), l’opera rivela una sensibilità romantica (nel senso ottocentesco) più mitteleuropea che italiana, espressa con mezzi formali rivelativi dell’assimilazione del novecento, con un gusto spiccato per lo slancio metaforico e la citazione filosofica (il riferimento heideggeriano all’essere-per-la-morte di Jazz suite), nonché per l’assonanza originale(Il Minotauro).
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Ultima visita 25 febbraio 2016
Simonetta Longo esordisce con una raccolta organica di versi, Notturlabio, ancorché sue anticipazioni siano state pubblicate in antologie e la sua opera sia pertanto già nota al pubblico e all’attenzione di poeti e addetti ai lavori. Cultura e natura caratterizzano e pervadono questa silloge d’esordio di Simonetta Longo, guidandone i passi fin dentro la comprensione del silenzio più eloquente. Fino a lambire quei luoghi dove non si avvertono più lo stupore e lo sgomento. Cultura e natura, non tanto e non solo a motivo del fatto la poetessa abbia tratto ispirazione per la propria visione poetica dalla squisita contemplazione di altrettante opera d’arte; questo, in prima approssimazione, il senso delle ecfrasi contenute nel testo. Ma vi è certamente di più e di meglio. Cultura e natura costituiscono la trama e l’ordito di una realtà proteiforme, difficilmente componibile in una sintesi dalla pur vaga pretesa di definitività. Cultura e natura possono allora variamente intrecciarsi con il silenzio, che è e rimane la materia primigenia della poesia. Di questa poesia in maniera del tutto particolare. Cultura e natura, ancora, danno sapore e consistenza alla vicenda umana. Il notturlabio è allora molto più che uno strumento a cui ci si affida per orientarsi, la notte, nei vasti spazi del mondo. Nelle intenzioni della poetessa diviene lo strumento che mette l’uomo — ciascun uomo, che è poeta — nelle condizioni di orientarsi nei vasti spazi della poesia e della vita.
L’Orologio Notturno, noto anche come Notturnale o Notturlabio, per affinità e similitudine con l’Astrolabio (altro strumento usato per le osservazioni astronomiche), era uno strumento che serviva per la misura del tempo anche di notte. Il suo uso era estremamente semplice, sebbene la sua precisione non fosse troppo spinta e non comparabile con quella di una meridiana; ciò nonostante ebbe larga diffusione nel tardo medioevo ed era particolarmente utilizzato dai marinai e dai cammellieri arabi del deserto.
Il sottotitolo del libro di Simonetta Longo è “Previsioni
dall’ombra”, è quindi del tutto naturale che “L’Ombra delle Parole” si
occupasse di questo libro, avendo in comune con esso la sostanza dell’Ombra.
Una particolarità e uno dei meriti del libro della Longo è il suo riflettere
non sol sui miti e sui personaggi mitici del mondo pagano (Medusa, Andromeda,
Arianna, il Minotauro, il Convito di Platone, Orfeo, Cassandra, Endimione, la
Sfinge etc) ma anche sui personaggi del mondo moderno o su personaggi storici.
Un libro molto complesso che si suddivide in capitoli: Previsioni della vista,
Previsioni dell’odorato, previsioni dell’udito, Previsioni del gusto, del
tatto, de Il quinto senso e mezzo e, infine, il Notturno. Un campionario
completo quindi.
I versi sono preferibilmente brevi, ubbidiscono ad un
impulso motorio, chiari e lapidari. La chiarezza della versificazione confligge
consapevolmente con l’oscurità della significazione simbolica. Prediligo certi
versi come: «Chiedi alla tazza dove gli occhi abitano», che hanno la funzione
di far spostare lo sguardo del lettore verso l’esterno, o l’interno di ciò che
si dice, e ciò che dice la Longo lo dice per intendere altro, quella zona
d’Ombra che il Notturlabio può solo misurare ma mai penetrare. Che solo la poesia
può indicare fuggevolmente, come in tralice, come in sospensione…
Link permanente: https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/01/05/nove-poesie-scelte-di-simonetta-longo-da-notturlabio-previsioni-dallombra-2014/
Ultima visita 25 febbraio 2016
È assai ambizioso il progetto di Simonetta Longo: addentrarsi nella conoscenza dei cinque sensi, quindi nell'oscuro cielo della psiche, attraverso uno strumento di orientamento quale era il notturlabio.
Non si tratta di una descrizione dettagliata delle forze che
ci abitano, e come si potrebbe! ma dei loro effetti attraverso immagini, quindi
immagini esse stesse che si rifrangono contro lo specchio del mistero.
Così è necessario far riferimento alla pittura, alla musica, alla letteratura,
ai miti per scrivere di qualcosa che riesca a scansare il rischio del vago. In
effetti l’impressione generale che se ne riceve è quella di accumulo, di un
grande museo dell’immaginario dove gli oggetti vengono esposti in uno spazio
strettissimo e non si riesce a vederli tutti.
Una chiave di lettura, quindi, potrebbe essere quella di un immaginario barocco
sontuoso eppure sfuggente, quella zona del barocco che coincide con la morte.
Laddove il libro cerca di estendere pericolosamente il suo passo è proprio
nella sezione intitolata “Il quinto senso e mezzo”, e cioè la zona più ambigua
dell’indagine che spesso coincide con la “premonizione”: “Il mio quinto senso e
mezzo scatta solo se la realtà diventa irreale o viceversa”, Dylan Dog, citato
dall’autrice.
“Libro concettuale”, dice Emanuele Spano nella postfazione, e in effetti
“Notturlabio” lo è, perché esistono due modi di addentrarsi nella conoscenza
dell’infinito che ci abita: la rinuncia, e quindi una religiosa contemplazione
degli effetti, oppure l’azzardo, il surpluss: come passare al setaccio infiniti
granelli di sabbia e, forse, avere la fortuna di vedere luccicare qualche
scheggia splendente di un metallo prezioso.
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Ultima visita 25 febbraio 2016
Notturlabio non
è solo una raccolta di poesie, ma è un libro compiuto, scandito in sei sezioni,
composito e bene strutturato architettonicamente.
Per
comprendere il senso del titolo è necessario mettere in rilievo che il
Notturlabio stesso è lo strumento antico usato dai navigatori per orientarsi
nell’oscurità.
Il suddetto oggetto sottende un’idea di ricerca in campo esistenziale dalla
quale il testo è pervaso.
Le scansioni sono precedute dalla poesia eponima che ha un carattere
programmatico e un andamento neolirico, icastico e leggero.
Il Notturlabio stesso diviene simbolo della tensione verso un viaggio che è la
vita stessa che si fa poesia.
I versi sono cesellati con raffinatezza e la forma è sempre elegante e
controllata.
I nomi delle parti dalle quali il testo è composto sono legati a previsioni sui
cinque sensi e a un “quinto senso e mezzo”.
La poeta realizza nella scrittura una gradevole linearità dell’incanto e il
linguaggio presenta una forte densità metaforica e sinestesica.
Il dettato è venato da una magia legata a levigatezza e domina un senso di
mistero evocata dalla sfera di berillo per predire il futuro e dal labirinto
che viene nominato.
Il versificare della Longo è veloce e scattante e i sintagmi procedono per
accumulo.
Elemento originale di questa scrittura sono i richiami dal mito, come quando
sono detti il Minotauro, Teseo, Medea, Andromeda e Medusa, per fare qualche
esempio; ciò crea un’immersione nel mondo classico con una patina arcaica ed è
presente il tema della metamorfosi.
L’io-poetante è molto autocentrato nel suo riflettersi nello specchio che ne
rimanda un’altra identità
Fondamentale è il senso dell’esoterico che serpeggia in tutto il testo, per
esempio nell’immagine di una lettura di premonizioni letta sul fondo di una
tazza di tè nero.
A volte l’io-poetante si rivolge ad un tu del quale ogni riferimento resta
taciuto, tranne quello di essere la figura dell’amato al quale la poeta si
rivolge in modo accorato.
L’atmosfera che si respira nell’insieme dei componimenti è quella dell’epicità
di un quotidiano che si proietta nel passato e si avverte spesso la presenza di
un erotismo dolce e sensuale.
Spesso le poesie sono ispirati da opere pittoriche di autori famosi, come Dalì,
Morandi e Boccioni.
Nel sottotitolo “Previsioni dell’ombra” è sotteso il richiamo all’ombra in
senso junghiano da intendersi come lato oscuro e inconscio dell’anima.
Il viaggio, l’orientamento, l’uscita dalla notte, nel farsi esercizio di
conoscenza tout-court.
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http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.it/2014/10/segnalazione-volumi-simonetta-longo.html
Ultima visita 25 febbraio 2016
"I
pensieri fanno capolino
agli angoli
di un discorso interrotto.
Sono rane
che saltano fuori
da
pozzanghere roventi, a volte. E fuggono via." (I pensieri)
Non ho
trovato parole più appropriate per iniziare il discorso di quelle di Simonetta
Longo, poetessa emergente che ha pubblicato, da pochi mesi, la sua prima
raccolta di poesie, intitolata Notturlabio, previsioni dall'ombra.
Perché sì, le sue poesie hanno la forza di catapultare il lettore nel mondo dell'ombra, del mistero, lasciandolo spesso intrappolato come Teseo, sperduto nel labirinto del Minotauro, aggrappato al filo di Arianna che lei srotolerà sapientemente per lui, guidandolo tra i miti greci. Oppure lo trasporterà, come il fiume trascinò Ofelia, conducendolo verso la drammatica attualità dello Tsunami giapponese.
"...così
che si amino almeno le ombre
oltre i
confini delle nostre scorze
di
condannati nel tempo
al termine
di questo cammino d'Amore
d'improvviso
scorgeremo
quella
bellezza stupenda di natura
che non diviene e non perisce
non cresce e non scema..." (Il Convito, Simposio 201d-212c)
La raccolta è divisa in sei sezioni, una per ogni senso (vista, olfatto,
udito, gusto, tatto) più il quinto senso e mezzo, citazione per gli amanti di
Dylan Dog, di cui lei è una grande fan.
La particolarità di questa raccolta, che non ho riscontrato in altre, è la capacità di unire tutte le arti attraverso il comune denominatore che è la poesia.
La poetessa ci indicherà, di volta in volta, le opere d'arte, le musiche
e gli eventi storici che le ispirarono quella determinata poesia, dandoci la
possibilità di osservare con nuovi occhi i quadri già visti e di ascoltare con
rinnovato interesse determinate musiche. Facendo capire a noi lettori, che la
poesia è racchiusa nelle piccole e nelle grandi cose con cui, ogni giorno,
veniamo a contatto.
Per chi è interessato lascio qui anche il sito di Simonetta in cui
potrete recarvi per carpire, in parte, la sensibilità della sua anima: http://www.simonettalongo.it/. Vi
consiglio in particolare di visitare la sezione "Tavole delle ecfrasi"
dove potrete ammirare i quadri che hanno ispirato alcune poesie.
Per intenderci, per ecfrasi si intende la descrizione di luoghi e di opere
d’arte fatta con stile virtuosisticamente elaborato in modo da gareggiare in
forza espressiva con la cosa stessa descritta (definizione
dal Treccani).
La raccolta inizierà con la poesia che le dà anche il titolo "Notturlabio"
e finirà con "Notturno", dandoci l'idea di una ciclicità della
notte che ispira e racchiude tutti i sensi.
Ho particolarmente adorato i temi misteriosi e oscuri delle poesie, che
restano originali, senza mai cadere in banalità. Restando tuttavia di facile
lettura e, grazie anche al supporto visivo e uditivo, permettono un viaggio
completo nel mondo della poesia, nel mondo della nostra novella Arianna.
Finirò citando pochi versi di una delle poesie che più mi hanno colpito:
"...ditemi
quali sogni
rubate
al discount dell'abitudine?
o quali caramelle d'oblio
assaporate
per addormentarvi i pensieri?
Non basta aver rinunciato alle stelle
per non avere chiodi
nelle mani
guardando l'abisso
non basta aver accartocciato il cuore
per non trovarsi
appesi a un povero legno
sorseggiando inquietudine..." (Il debito)
Link permanente: http://entropiadellamente.blogspot.it/2014/07/notturlabio-previsioni-dallombra.html
Ultima visita 25 febbraio 2016
Poesia fluida, densa, ammiccante, i cui legami di complessa
metaforicità abbracciano con sintonia gli abbrivi propositivi di un’anima tutta
volta a comunicarci sensazioni di polisemica fattura. Un mélange
tra: ispirazione mantico-sepolcrale di memoria protoromantica
inglese; poetica decadente dal sapore di “poesie maudite”; e
repêchage di un mito ancestrale il cui mondo era territorio di poeti e
preveggenti.
Mistero della notte. Una ricerca continua di spazi che
vadano oltre gli orizzonti per superare il crinale fra il razionale e
l’irrazionale. Un faro sulle rocce solitarie dell’Oceano, che, non potendo
squarciare le tenebre oltre i limiti del suo potere, ben rappresenta lo spirito
dei veri poeti: quelli intenti ad una ricerca tanto inquieta quanto tormentata.
D’altronde Alfredo Panzini definiva i poeti (quelli veri, e Simonetta… lo è)
“simili al faro del mare”. Un’impresa quanto meno difficile e improbabile, ma
estremamente suggestiva che dà nutrimento ed energia al canto. Notturlabio:
riferimento all’antico strumento con cui i naviganti determinavano
grossolanamente l’ora tramite l’osservazione di due stelle dell’Orsa. Quale
metafora più calzante per introdurci in un percorso fatto di allusioni
fono-simboliche di sapore romantico. Di quel romanticismo che legge nel mare,
con gli occhi di Delacroix, il simbolo degli slanci verso una libertà
indeterminata e irraggiungibile; e che vede nei lontani orizzonti marini
l’azzardo umano a superare i limiti terreni. Poesia misterica, alla Thomas
Gray, da protoromanticismo fine settecento inglese, appunto, in cui l’upupa
viene presa erroneamente per simbolo come abitante notturno delle incavità dei
teschi; con quel fascino di preveggenza cassandrica, appartenente alla parte
nascosta dell’anima di ognuno di noi, che si sfuma in tutti i 6 sottotitoli
dell’opera: ciascuno per ogni senso con uno e ½ in più. Quello baudelairiano,
direi, che il maudit assegna al potere ipersensitivo dei poeti. Per cui solo
loro possono percepire quella musicalità insita nella Natura a unire fra loro
le cose divise agli occhi dei semplici mortali. Una musicalità impercettibile,
quindi, che è alla base dell’armonia dell’universo. D’altronde i decadenti
fanno del ricorso al panismo, al senso del mistero, alla sonorità e alle
figure retoriche (anafora, sinestesia, anastrofe, allitterazioni, metonimia,
metafora, iperbole, onomatopea) il punto focale della loro poetica per rendere
più misterioso e più incisivo l’effetto dell’armonia del verso.
Addirittura il D’Annunzio traduce questo accorgimento stilistico
in una vera orchestrazione visiva ed uditiva, ricorrendo alle gocce della
pioggia sulle foglie per simboleggiare gli accordi delle dita dei musicanti.
Mentre il senso del mistero lo trasmette ricorrendo a vaghezze iperboliche tese
ad ampliare gli spazi delle ombre del bosco. A Marina di Pisa, luogo ispiratore
deLa pioggia nel pineto, il poeta slarga le distanze strettissime con
espressioni tipo “Chi sa” “Chi sa dove”, offrendo anche quei risultati di
indeterminatezza, che sono l’antiporta del misterioso fascino del luogo. Poesia
senza trama, quindi, giocata tutta su percezioni, e sensazioni. Effetti che
l’abruzzese, secondo il suo modo di estetizzare, porta al parossismo; come,
d’altronde, fa con lo stesso panismo, trasfigurando Ermione nelle policromie di
una Natura umanizzata con una completa metamorfosi. Tutto questo per dire in
quanta complessità creativa ci imbattiamo con la silloge della Nostra. Un’opera
di perspicua frequentazione letteraria dai toni di orfica tensione, dove
l’impiego di vaghezze semantiche e di nèssi tecnico-fonici fanno di tutto per
abbracciare gli abbrivi sensoriali ed emotivi di un’anima carica di suggestioni
e di mistero per lo sperdimento di una poetessa, cosciente della impossibilità
di penetrare nei dilemmi della vita, e di non poter risolvere i tanti suoi
quesiti:
Vago da sola
sulla terra
lungo le
ferite della notte
cercando un
passo nuovo
e tutto è
silenzio
intorno
cerchi
d’alberi
intrichi di
rovi
misteri di
nuvole sparse
come squarci al velo del buio… (Notturlabio).
Un azzardo continuo verso orizzonti che vadano oltre
il fatto di esistere. D’altronde la Longo sa dei limiti del nostro esistere,
delle difficoltà di aprirsi all’azzurro per captare soluzioni ai tanti
interrogativi della nostra vicenda. Un malum vitae e uno spleen che
si fanno determinanti per la resa del canto in questa silloge. Un’inquietudine
che fa da leitmotiv, da colonna sonora nello spartito dell’opera. E se la
poetessa è chiusa in un labirinto di condizionali:
Rinchiusa
in un
labirinto
di vorrei
abbandonavo
la mia
identità
in un
ripetersi
di specchi
il gioco
infinito
richiamava
alla mente
altre donne
ma io?... (Il minotauro),
è perché:
… Dovevo
uccidere
i miei
minotauri notturni
per
ritrovarmi
e
riflettermi
nei tuoi occhi (Il minotauro).
Poesia snella, agile, libera da vincoli metrici per
declinare con più spontaneità i battiti diastolici del cuore. Immaginazione,
sogno, vertigini sensoriali, rievocazioni di plurivocità artistica, realtà
rivisitata dopo una lunga decantazione in un’anima zeppa di suggestioni
emotive: un mélange disvelante luci ed ombre (malinconia, abbandono, essere
pietra, disperato il tuo canto, pianto ripetuto, terrore di volti notturni) in
un linguismo originale che inganna l’armamentario retorico e l’insidia dei
luoghi comuni; un percorso dove l’attesa di un dio ebbro che beva la malinconia
fa da substrato fertile a punte di lirismo:
… No, Teseo,
oltre il muro
il tuo
indugio non pesa più
attendo
ormai
come un
viaggio nuovo
la
ricompensa dell’indovino
due palme di
sogno
e un dio
ebbro
che mi beva
la malinconia (Arianna).
E il giuoco tematico, prendendo mosse da riferimenti a
grandi artisti o a grandi storie, si articola su previsioni di notevole ars
inveniendi: da De Chirico, La ricompensa dell’indovino:
Non è te
Teseo
che attendo
la mia
ragione è fuggita
col filo
e non è al
tuo abbandono
che penso… (Arianna),
da R. Magritte, La battaglia delle Argonne:
È notte, no
era l’alba
sopra un
ciglio di luna
tu nuvola
leggera ed io roccia antica
la
battaglia iniziò, già perduta
inerme
d’arcano silenzio t’amai
forzando il
mio essere pietra
fino al cielo… (Battaglia delle Argonne),
dove un gioco di iperboliche allusioni si declina in un lirismo di erotica vicinanza, di oggettivante profusione; da G. Moreau, Orfeo:
Amore
la tua voce
è così dolce
così
disperato il tuo canto
anche la
roccia piange
anche le
foglie lo assecondano
precipitando… (Orfeo),
da E. Satie, Gnossienne n. 1:
Sul tetto di
Notre Dame
il tempo non
passa mai
è uno
spartito che non leggo
ritmo lento
di pianto
ripetuto… (Gnossienne n. 1 o la chimera di Notre Dame),
dalla Nike di Samotracia:
Mi dà brividi
il vento
troppo
leggera è la veste
sotto cui
freme il marmo pario
ma devo
forzare le ali
all’impeto:
Ecco la triremi!... (Nike (mutilata))
dall’Apocalisse, 16, 3-16:
…Ma io ho
sogni di sveglia
e terrori di
volti notturni
e non so
perché vivo
una vita da cieca.
Gli
antichi li dissero
Presagi (Presagi).
per terminare in un Notturno con Variazione su Alcmane: tante citazioni incipitarie che danno il via a meditazioni di proficua valenza culturale. Un grande pozzo di sapere a cui la Nostra attinge con generosa spontaneità senza sottrarre niente all’originalità del canto; incrementandone, anzi, gli abbrivi esistenziali ricorrendo a contaminazioni paniche di grande resa visiva:
Dormono le
cime degli alberi e le radici,
i pieni e i
vuoti,
e le pietre
del lento fiume,
e le
stagioni che ai sogni s’apprendono, e gli anni,
e le ombre
nei sentieri del bosco assorto
Dormono le
solitudini degli uomini
placato sussulto d’attesa (Variazione su Almane).
Solitudini che dormono e che si fondono col mistero delle
ombre del bosco in balia di un eracliteo scorrere del tempo.
Link permanente: http://nazariopardini.blogspot.it/2014/07/n-pardini-lettura-di-notturlabio-di.html
Da secoli immagini e parole raccontano la storia dell’uomo. Simboli e colori s’intrecciano come fili invisibili a formare un quadro parimenti preciso e babelico della condizione umana, un mosaico variegato di straordinarie opere d’arte letterarie e artistiche.
La forma
poetica è di per sé una sintesi simbolica scandita da precise regole metriche e
stilistiche, in particolare l’ecfrasi, che si concentra sulla descrizione di un
luogo o di un personaggio in un contesto narrativo ‘sospeso’ dal racconto in
divenire — una scelta che accresce il potere evocativo ed illustrativo insito nella
poesia e che può essere oggetto di una lettura iconologica, strumento tipico
del repertorio storico artistico per la sua capacità di leggere ed analizzare
le figure allegoriche e simboliche di un’immagine per cogliere, attraverso lo
studio degli elementi formali, il significato culturale —, rende ancora più stringente il nesso tra la poesia e
l’arte, intendendo quest’ultima come “Ut pictura poësis” (Epistola II, 3, 361) secondo la superba
definizione di Orazio nell’Ars Poetica.[1]
Un esempio illustre della letteratura greca è lo “Scudo di Achille” che Omero descrive nell’Iliade (Libro XVIII, 483 – 489)[2],
dove il poeta, primo nella storia occidentale, si sofferma nella descrizione di
un’opera d’arte figurativa.[3] Altro
eccelso esempio e nel carme LXIV del Liber di Catullo (versi 40-50)[4].
Passando in età moderna, e più precisamente al Seicento, lo storico dell’arte
bolognese Cesare Malvasia (Bologna 1616-1693), autore nel 1678 della Felsina Pittrice, raccolta di biografie
di artisti emiliani e romagnoli, descrivendo un’acquaforte del sommo Annibale
Carracci, cardine della pittura classicista, così si esprime: “La tanto giusta,
corretta e tenerona Venere, così ben dormiente nuda sopra serico letto,
appoggiante la sinistra sopra ben spiumacciato origliere, la destra stesa, e
poggiante sul ventre; scoperta ai piedi e mirata da curioso satiro,
minacciato con l'arco alzato e irriso col dito in bocca da Amore sotto
il mezzo padiglione”.[5]
Giovanni Pietro Bellori, artista e storico dell’arte romano coetaneo al
Malvasia (Roma 1613 – 1693), così descrive un’estrema unzione di Nicolas
Poussin, artista francese fra i più grandi del XVII secolo, per la sua maniera
chiara, logica e ordinata che così bene si attaglia alla sua teoria sull’Idea
del Bello, enunciata nel 1664 all’Accademia Nazionale di San Luca e prefazione
de “Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni”[6]
del 1674, caposaldo della letteratura storico artistica: “Giace l'infermo in
abbandono de gli spiriti e de le forze: il volto prostrato apparisce in
profilo, e la morte s'imprime nella concavità de gl'occhi mezzi chiusi che
danno segno d’addormentamersi; ma, chiudendosi le luci, viene ad aprirsi
alquanto la bocca, alitando mortale respiro. Resta avvolto in una fascia quasi
tutto il capo e la fronte; e la barba inculta e il pallore funesto accrescono
la mestizia del sembiante. L'istesso effetto si palesa nelle membra estreme, e
particolarmente ne’ piedi, che primi sono a morire: s’annegriscono l’unghie,
squallida la pelle di mortal gelo. Le mani ancora mostrano la medesima
mancanza, curvandosi debilmente le dita; il braccio posa avanti lungo la sponda
del letto, con la destra aperta all'unzione sagramentale, e di là apparisce
alquanto la sinistra raccolta sopra il seno, donde si spande il lenzuolo con un
panno di color verde, e resta discoperto il petto ignudo macero esangue
nell'apparizione dell’ossa e attenuazione della vita”. La bellezza ideale per
Bellori è riconducibile all’arte di Raffaello e alla filosofia di Platone. Se
per i platonici l’arte non era altro che l’imitazione di quello che era il
sublime mondo delle idee già insito all’interno della mente dell’artista
esecutore delle opere d’arte, per Bellori le idee non sono presenti a priori
nella mente umana ma vengono ispirate grazie alla contemplazione della Natura.
Anche Raffaello maturo esalta il mito della classicità come ‘paragone’ di
perfezione guardando alle naturali
proporzioni di Fidia[7] e
Policleto[8].
Assioma che diviene regola per generazioni di artisti, ma che trova il suo
apogeo prima tra
la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo nell’Arcadia
neoclassica di Antonio Canova, Jacques Luis David e Jean-Auguste-Dominique
Ingres, poi, alla metà
dell’Ottocento, nella pittura romantica e vittoriana dalla Confraternita
dei Preraffaelliti[9] di Dante Gabriel Rossetti,
William Hunt, Fox Madox Brown, John Everett Millais, William Morris, Edward
Burne-Jones e John William Waterhouse, ed infine negli onirici territori
dell’anima di Gustav Moreau[10] e Odilon Redon[11].
Un alveo di simbologie mitologiche sospese tra percezione chimerica e visione allegorica che appare come l’ideale retroterra delle ecfrasi di Simonetta Longo contenute nella raccolta: Notturlabio, previsioni dall’ombra.
La lirica Andromeda ci offre subito un rapporto intimo tra parola e immagine, una rara sensibilità evocativa che prendendo spunto da un’intensa tela di Edward Burne-Jones, Il destino compiuto del 1875-1878 — conservata allo Staatsgalerie di Stuttgard e facente parte del Ciclo di Perseo che per circa un trentennio terrà occupato l’artista (1870 -1898) — sarà il leitmotiv dell’intera antologia poetica. Nell’incipit: “Afferralo il drago marino / che attenta alla mia schiena nuda / di statua” si fa esplicito riferimento alla scultura, alla dicotomia tra la ferma postura marmorea e il movimento dei sentimenti: ancora rivolgendo un’invocazione a Perseo Andromeda dichiara il turbine delle proprie emozioni: “avrai il desiderio che celo tra rossi capelli / e sono viva / non ho l’immobilità di marmo lo vedi? / piango”; la vista diviene lo specchio sensibile di un’anima turbata che nell’epilogo — dove ella invoca la salvazione dell’eroe — diviene struggimento nell’intimo legame tra l’afflato del lemma che muta in sembianza: “non abbandonarmi alla pietra / di uno sguardo / uccidi il mio mostro salino / asciugami le lacrime / e non avrò pudore / questa notte / di salvarmi / in un bacio / di stelle”.
Orfeo è sicuramente l’ecfrasi che offre il più ampio spettro delle capacità poetiche di Simonetta Longo, dove la correlazione tra parola e figurazione diviene un unicum al servizio del verso, che pulsa e freme come carne viva della lirica: “Amore / la tua voce è così dolce / così disperato il tuo canto / anche la roccia piange / anche le foglie lo assecondano / precipitando / e se il fiume trattiene la sua corsa / senza fine anche lui sospira”. Le immagini sono il vero fil rouge che scandisce e governa il componimento, oltre la parola Amore, che come un metronomo per quattro volte si ripete a scandire un ritmo solenne e accorato: “non guardarmi ancora / le nebbie di questo cieco cammino / non mi perderanno / saremo liberi / e felici”, e ancora, nella parte mediana dell’ecfrasi: “crudeli i tuoi occhi / più fatali del morso del serpe / ora che mi offrono alla seconda morte / accarezza la mia mano d’ombra”, fino all’epilogo che pare una doppia corda che suona per simpatia con il meraviglioso quadro di Gustav Moureau, dove la forma diviene sensuale simulacro di profondissime trasfigurazioni: “Mi straziano sacerdotesse d’ebrezza / invidiose / ma io solo cantavo il tuo nome / mentre pezzi di me / arrossavano il fiume / la lira portò la tua voce / fino al Padre / che pianse / ora splendo ogni notte / invocando i tuoi occhi d’abisso / e la verità / Sì, mi voltai / sono Orfeo”.
La Ninfa d’acqua è un’occasione per confermare un’attitudine dell’autrice all’allegoria figurata che si compenetra nel verso. Possesso, acqua e amore sono i temi su cui poggia questa ariosa e soave ecfrasi, che possiamo leggere come evanescente memoria che si rifrange in un oceano di elegiaca limpidezza: “Tu dormi / abbandonato splendore / non ti salveranno le stelle di fiume / dal mio agguato d’acqua / ignaro ti avvolgerò nelle mie onde / già fluisco e ritorno me stessa / in un assalto di sete” che diviene travolgente passione posseduta con ardore: “e io ti prenderò / in un gorgo / d’oltreumana dolcezza”, quindi abbandono e convincimento del legame eterno di un sentimento: “annegheremo in un bacio / non potrai fuggire / al tuo essere liquido / allora amerai la mia mostruosa trasparenza / e scorreremo sempre / nell’abbraccio fluido del tempo”. Nella chiusa infine vi sono chiari riferimenti simbolici alla tradizione figurativa cristiana: “ma io ti allaccerò ai miei occhi / con fili d’oro rosso e corallo / e uno sguardo di luna antica / in un riflesso d’acqua”, dove l’amore che diviene salvezza nell’ordine variabile dei sentimenti prende la forma dell’oro rosso e corallo: la prima una figura che evoca la passione di Cristo e, nell’intreccio tra oro e rosso, la sua natura divina ed umana; la seconda usando l’antica allegoria dell’amuleto apotropaico destinato ai neonati come metafora del sangue e della reliquia della croce. Tropi desueti ma assai efficaci nel rendere tangibile la transitorietà di un vincolo, l’amore, fatto di parole e tenerezza, di attrazione dei sensi e condivisione degli affetti, dove la salvazione si raggiunge attraverso un percorso scandito dalla conoscenza del dolore e dalla natura caduca dell’uomo che raggiunge una dimensione trascendente nelle onde di un destino ineluttabile.
Pigmalione sancisce infine il legame indissolubile tra
parola e immagine. Già nell’incipit: “Ti
plasmerò / ma non avrai cuore per me / e resterò a guardarti in sogno / muta”,
l’autrice mette a confronto antitetico la staticità della scultura, silente nel
suo plasmarsi nelle mani dell’artista, e l’errante movimento dell’anima. Il
concetto è ribadito nel verso successivo: “La
linea perfetta / mi consuma il sonno / la febbre del desiderio lima il marmo”
che tanto richiama gli immensi quanto definitivi versi dispersi ungarettiani: “Mi levigo / come un marmo / di passione”,[12]
e diviene più stringente quando all’attesa subentra la supplica: “Attendo. / Attendo. / Prego / un respiro
alla tua indifferente bellezza / di statua”. All’esortazione di un dialogo
che divenga rapporto, il languore del cuore che si gonfia di passione: “Parla, parlami questa notte / nelle mani
graffiate d’attesa / lo scalpello febbrile / si muove sui tuoi occhi vuoti di
dolcezza / per me”, alla voluttà degli affetti che si dichiara ormai senza
più limiti: “Voglio sentire la tua voce
vibrante / vedere i tuoi occhi acuti. / Voglio stringere le tue calde forme /
mordere le tue labbra pulsanti / Voglio annusare il tuo profumo carnale / mia
bianca ossessione”.
Un’attrazione che si deve rilevare con la vista, riconoscere attraverso il senso più illusorio, realtà o riflesso di un’emozione: “Guarda, guardami, l’alba mi opprime / e il tuo bacio non dato toglie il respiro” che si plasma ardendo in sentimento eterno: “Non condannarmi all’assenza / dall’alto d’un impossibile piedistallo / io ti ho creato di roccia dura e amore / svegliati e prendimi / in un abbraccio di sangue”.
[1] L’Epistola ai Pisoni (o Ars Poetica) scritta nel I secolo a.C.
da Quinto Orazio Flacco è un riferimento fondamentale per comprendere il
concetto stesso di estetica al pari della Poetica
di Aristotele: Orazio, facendo una sintesi teorica della natura e degli scopi
della poesia, conviene con il precetto aristotelico che la vede come organismo vivente. «La poesia è come un
dipinto: questo, guardato più da vicino, ti prende di più; quest’altro se ti
metti a distanza; per questo ci vuole la penombra, per questo la luce piena che
non teme il perspicace giudizio del critico; e così questo piace soltanto una
volta, quest’altro anche se visto e rivisto». Sui riferimenti dal Rinascimento
al Neoclassicismo estremamente esaustivo il saggio di Simona Selena Scatizzi: «Ut pictura poesis. La descrizione di
opere d’arte fra Rinascimento e Neoclassicismo: il problema della resa del tempo
e del moto», in “Camenae”, n. 10, febbraio 2012, Université Paris-Sorbonne.
[2] “Vi pose la terra, il cielo e il
mare, il sole instancabile e la luna piena e tutte le stelle di cui il cielo si
incorona: le Pleiadi, le Iadi, il forte Orione e l'Orsa, che chiamano anche col
nome di Carro, che gira su se stessa e guarda Orione ed è la sola che non si
tuffa mai nell'Oceano”.
[3] Dopo
aver perduto le armi prestate a Patroclo morto in uno scontro con Ettore,
Achille non può vendicare l’amico. Sua madre Teti intercede per lui con il re
del fuoco, Efesto (Vulcano), in modo che possa forgiare delle nuove armi: tra
la suntuosa panoplia — che comprendeva spada (xiphos), lancia (dóry), elmo (kranos), scudo (aspís) corazza
(thórax a proteggere il
petto e epibraxi?níos il ventre),
bracciali (epip?khýon), schinieri (knemis), protezioni per le caviglie (episphýrion) e per i piedi (epipodíon) in dotazione agli opliti
ellenici — un grande scudo realizzato con rame e stagno frammisto ad oro e
argento, superbamente descritto nelle rime omeriche.
[4] “Ma il suo palazzo, ovunque si
estende la ricca reggia, splende di luccicante oro ed argento. Brilla l'avorio
sui troni, rilucono le tazze della mensa, tutta la casa gioisce di regale
splendida ricchezza”.
[5] Cesare
Malvasia, Felsina Pittrice. Vita de’
pittori bolognesi, Bologna, Forni, 1678, tomo I, parte II, pag.103.
[6] Giovanni
Pietro Bellori, Le vite de’ pittori,
scultori et architetti moderni, Roma, Mascardi, 1672, volume II, pag. 175
[7] Uno
dei massimi scultori e architetti della classicità (Atene 500 a.C – 430 a.C)
realizza nel 460 a.C per il nuovo tempio di Atena, detto Partenone, i modelli
per le sculture dei due frontoni e le 92 metope del fregio esterno ed interno,
famose per la tecnica del panneggio
bagnato che tanto scalpore suscitò ai visitatori del British Museum —
compreso un ammirato Antonio Canova che ne certificò l’autenticità — quando
Lord Elgin, ambasciatore della Corona a Costantinopoli, nel 1810, dalla loro
sede originale (previa autorizzazione delle autorità ateniesi a fronte di un
sostegno militare britannico per cacciare i francesi d’Egitto che allora
detenevano il potere dell’Impero Ottomano), le trasportò a Londra per poi
donarle, con lascito perpetuo insieme a tutta la sua collezione, al celeberrimo
museo.
[8] Nato
ad Argo nel 490 a.C circa (dove morì nel 410 a.C) fu autore del Canone, trattato che teorizzava le
proporzioni e i rapporti numerici ideali del corpo umano, è ricordato insieme a
Fidia come protagonista assoluto del periodo greco classico, per il Diadumeno (430 a.C) e, soprattutto, il Doriforo (450 a.C.), la cui copia romana
è oggi conservata al Museo Archeologico di Napoli.
[9] Corrente
nata nel 1848, è da ritenersi, insieme al Simbolismo,
una trasposizione pittorica del decadentismo. Gli adepti, prendendo spunto dal
divino Raffaello, recuperano con passione quasi esoterica, una freschezza del
fare pittura che l’Accademia aveva contaminato. I temi che trattano sono
mitologici, biblici, medioevali, shakespeariani, e pur nell’assoluto artificio
della realizzazione si avverte un’esigenza di spontaneità dei sentimenti
parimenti avvertiti, sul finire del secolo, dallo ‘scandaloso’ Oscar Wilde, sia
nelle sue sublimi commedie come nei suoi struggenti romanzi.
[10] Nella
pittura di Gustav Moureau (Parigi 1826 – 1898) il simbolo è il vero
protagonista dell’opera. Un dedalo di segni e colori, che l’erudito potrà
leggere attraverso il mito, che svela l’indicibile e l’inesprimibile, che
oltrepassa gli steccati ideologici, politici e religiosi per scandagliare
l’anima, obiettivo ultimo della sua ricerca. Il sincretismo di Moreau — che
attinge dalla cultura biblica e cristiana, dal mito classico come
dall’architettura e dall’arte orientale, così in voga nella seconda metà
dell’Ottocento — sarà fonte d’ispirazione costante per il Surrealismo che, come da esplicita ammissione di André Breton, teorico del movimento, era la
diretta emanazione di quel coacervo di simboli sacri e profani che Gustav Moreau e Odilon Redon avevano scandagliato.
[11] Allievo
di Gustav Moreau, Odilon Redon (Bourdeaux 1840 – Parigi 1916) affronta il
rapporto tra segno e colore con soluzioni originali e inaspettate che, nel suo
mondo poetico, trovano una sintesi nel sogno, a volte bizzarro, chimerico, grottesco,
assai vicina ai suoi modelli artistici (Francisco Goya) e letterari (Edgar Alan
Poe e Charles Baudelaire) e alle sue amicizie con Paul Gauguin, Stephane
Mallarmé e André Gide.
[12] Giuseppe
Ungaretti, Mandolinata, contenuta
nelle Poesie disperse di «Vita di un uomo», a cura di Leone Piccioni, I
Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1969, pag. 384.
La lirica CHANEL N. 5 di Simonetta Longo è un’ecfrasi sinestetica e trae spunto, come si nota dal titolo, da una pubblicità cinematografica della nota casa francese di profumi. È inclusa nella silloge Notturlabio, previsioni dall’ombra (Collezione Letteraria di Puntoacapo editrice, 2014). Notturlabio è un classico libro di carta, ma è anche un’opera multimediale da ascoltare e da guardare; i versi scaturiscono dalle sensazioni: dalla vista di dipinti famosi o dall’ascolto di brani musicali — e, in alcuni casi, dalla percezione di profumi e da altri stimoli sensoriali. Si è scelto di analizzare CHANEL N. 5, testo volutamente retrò, come esempio di multimedialità. La poesia oggi viaggia su supporti non solo cartacei (il classico libro); e non è ancora chiaro se abbia ancora necessariamente bisogno della pagina bianca. In CHANEL N. 5 l’autrice usa la penna come un trasduttore trasformando le sequenze delle immagini in un flusso ritmico di parole.
Il soggetto della lirica, come
scoprirà il lettore (che forse ha visto la pubblicità), è una storia d’amore
che si conclude con un abbandono e una fuga. Il sottofondo è un profumo.
La finalità di questo saggio è
analizzare alcuni aspetti formali, ritmici e stilistici della lirica CHANEL
N. 5, non altro; è lasciato al lettore il compito di “confrontare”
i versi della lirica con il filmato pubblicitario.
La poesia è come una bottiglietta di profumo
La lirica non presenta alcuna
suddivisione, ma è possibile scomporla in quattro strofe,
introdotte da un ritornello
Questo folle amore[1]
Le prime tre strofe sono
composte da otto versi ciascuna, l’ultima da sette.
CHANEL N. 5
Questo folle amore
Svanirà come scia di profumo
Nel tempo
Il ricordo di un anno impazzito
Un segreto che brucia negli occhi
Giorni di attese e finzioni
Nello scorrere di parole
Dette e trattenute
Questo folle amore
Che consuma le notti
Gocce di desiderio
Sui vetri della malinconia
Treni in fuga dalla mente
Verso un tuo sorriso
Si sgretolano le albe
In assenza di un gesto
Questo folle amore
Respira un sogno d’oscurità
Il tuo riflesso nello specchio
Mentre scompari
È un delirio in corsa
Per fermarti in un abbraccio
In un bacio non mio
Un errore
Questo amore folle
Un viaggio in bilico
Su ponti di solitudine
Ma sarò viva
In letti caldi di nostalgia
Solo per ricordarne
La profumata carezza
Nella prima strofa di CHANEL
N. 5 è possibile
isolare alcuni ritmi che, insieme al ritornello Questo
folle amore, tendono ad essere ricorrenti in tutte le strofe
successive.
1.1 Il verso n. 1
Il primo verso che, come abbiamo
già messo in evidenza, fa da ritornello:
Questo folle amore
è un senario trocaico con
accenti ritmici principali sulla 1a e sulla 5a sillaba (+ ——— + —),
rintracciabile in alcune composizioni medievali.
1.2 Il verso n. 2
Il secondo verso:
Svanirà come scia di profumo
è un decasillabo dattilico con accenti ritmici in 3a, 6a e 9a posizione (—— + —— + —— + —).
1.3 Il verso n. 3
Il terzo verso è un trisillabo
(— + —):
Nel tempo
ed è raramente usato nei
componimenti poetici a causa della sua brevità[2].
1.4 I versi n. 1 + 2 + 3
I primi tre versi di Chanel
N. 5, ossia il senario del ritornello, il decasillabo e un verso
breve (qui è un trisillabo):
Questo folle amore
Svanirà come scia di profumo
Nel tempo
come abbiamo accennato,
ricorrono nelle altre strofe, ma con alcune varianti ritmiche interessanti.
A parte il ritornello Questo
folle amore, che apre sempre in anafora tutte le strofe, il
decasillabo, nelle strofe successive, cambia ritmo: da discendente dattilico
con accenti di 3a,
6a e 9a (come abbiamo visto) diventa trocaico, con gli
accenti ritmici principali in 2a, 4a e 9a posizione. Lo ritroviamo nella
seconda strofa:
Sui vetri della malinconïa
e nella terza:
Respira un sogno d’oscurità
Nella quarta e ultima strofa compare solo un frammento del decasillabo (— + — + ——)
Un viaggio in bilico
La formula chimica di CHANEL N. 5
Abbiamo dunque individuato una
costante, le strofe della lirica iniziano con il senario (del ritornello),
seguito da un decasillabo (ricorrente in tre strofe su quattro). Inoltre,
sempre in tre strofe su quattro, c’è un verso breve (di lunghezza inferiore al
senario del ritornello); nella prima abbiamo individuato il trisillabo (Nel tempo); nella terza c’è un
quadrisillabo (Un errore);
nella quarta compare un quinario (Ma
sarò viva). Nella seconda strofa non è presente alcun verso breve.
Ricorrendo tre volte su quattro, anche la presenza di almeno un verso breve
all’interno della strofa si configura dunque come una costante.
In CHANEL N. 5 il ritmo dominante è quello del trocheo (+ —); in tutte le strofe, i primi due versi sono trocaici. All’interno di esse compaiono anche ritmi di diversa natura, ma il ritmo del ritornello + ——— + — (identificabile, come vedremo, con il profumo) ha, ogni volta, una funzione normativa, stabilizzatrice (oltre che ritmica, anche psicologica).
La lirica ha una sonorità fluida
anche perché la poetessa ha calcolato, in ogni verso, il peso ritmico delle parole: quelle
semanticamente più espressive sono più pesanti… Quanto pesa un profumo?
Una curiosità; in CHANEL
N. 5 c’è un ottonario
dattilico, molto raro in poesia, con gli accenti ritmici sulla 1a, 4a e 7a sillaba:
Giorni di attese e finzioni
L’autore di questo saggio ne
trova un solo esempio in Pascoli:
Stava per batterlo su…[3]
Respirando 4 gocce di CHANEL N. 5
Il ritornello Questo
folle amore è una
goccia di profumo, che si effonde all’interno delle strofe e introduce, ogni
volta, i flussi ricorrenti delle immagini. Quattro ritornelli, quattro strofe,
quattro gocce di Chanel N. 5.
Prima di procedere è utile
conoscere la storia di questa essenza:
«Chanel N0 5 è il nome di un profumo della casa di moda Chanel,
considerato uno dei più celebri della storia. Fu voluto da Coco Chanel e
commissionato al chimico Ernest Beaux, che miscelò per la prima volta essenze
naturali e sintetiche (80 ingredienti differenti, tra i quali essenza
artificiale di gelsomino). Grazie a tali prodotti chimici l’essenza del profumo
si poteva sentire molto più a lungo […]. Anche il suo nome era assolutamente
innovativo: Nº 5. Si suppone che Chanel abbia scelto per il profumo questo
strano nome dopo avere annusato la quinta boccetta d’essenza di prova che Beaux
aveva preparato. La confezione era una semplice bottiglia da farmacia
trasparente con un’etichetta minimale bianca e nera. […] La più grande e
indiscussa testimonial della fragranza è Marilyn Monroe che dichiarò
di andare a letto indossando solo due gocce di Chanel Nº 5.»
[4].
Respirando (e sospirando), l’io
femminile narrante ripercorre mentalmente gli avvenimenti e i gesti di
quell’amore impossibile, racchiuso (sublimato quasi) nell’essenza contenuta in
quella «semplice bottiglia da farmacia trasparente». Svitandone il tappo, la
fragranza del profumo libera il flusso dei ricordi (è quel che accade anche a
Marcel quando sente il l’odore del tè e il sapore della madeleine).
In ogni strofa, come in una stanza poetica, prendono forma alcuni
pensieri d’amore, scatenati dalla goccia di profumo (rappresentato dal
ritornello Questo folle amore); dopodiché
l’essenza (l’assenza?) si diffonde (e questa diffusione è imitata dal verso decasillabo, sempre
in seconda posizione). In ogni strofa compare inoltre un termine,
un’espressione che rimanda direttamente all’odorato, nell’ordine: brucia
negli occhi (con
riferimento al pianto?) – gocce – respira – profumata.
Tra una goccia di Chanel e
l’altra, l’io narrante femminile si abbandona ad uno stream
of consciousness (flusso
di coscienza). I pensieri e le immagini si condensano sui
vetri della malinconia e scorrono come treni in corsa… e poi si
attenuano… con il dissolversi della fragranza…
Il verso breve, individuato
all’interno delle strofa, svolge un’importante funzione teorica:
segnala quando l’essenza sta svaporando. E allora, ecco un’altra goccia… di Chanel
N. 5.
Il tappo della bottiglietta
Nei primi tre versi della lirica
è, dunque, mostrato programmaticamente l’intero meccanismo con il quale è stata costruita la
lirica: il ritornello del primo verso (questo
folle amore) segnala la goccia di profumo; il decasillabo del
secondo verso (svanirà come scia di
profumo) segnala che il profumo si sta diffondendo; il terzo verso
(nel tempo) segnala
quando il profumo sta svaporando.
L’analisi, nella quale abbiamo
sottoposto a controllo un profumo (e alcuni pensieri), finisce qui. E chiudiamo
la bottiglietta.
Nota: Una prima versione di
questo saggio è stata pubblicata sulla rivista «Pentèlite. Scritture letterarie
di Sicilia», a cura di Giuseppe Pettinato, Morrone Editore, Siracusa 2012.
[1] Nell’ultima strofa c’è
un’“inversione”: amore folle.
[2] Questo trisillabo potrebbe
essere un’abitudine ritmica acquisita con l’ascolto delle opere liriche (la
poetessa si è laureata all’università di Lecce con la discussione di una tesi sul Mefistofele di Arrigo Boito con il critico
Donato Valli). Come fa notare W. Th. Elwert nel suo manuale di metrica (W. Th.
Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai
giorni nostri, Firenze 19731), è raro e «lo troviamo, per es., nel Re
Orso e nei libretti
d’opera di Arrigo Boito, esperto maneggiatore di ritmi e di rime: “Sian nimbi /
Volanti / Dai limbi, / Nei santi / Splendori / Vaganti… (Mefistofele)». Nel Novecento
questo verso brevissimo è stato riutilizzato proprio per le sue qualità
musicaliminimaliste;
segnaliamo La fontana malata di Aldo Palazzeschi del 1909,
interamente costruita su dei trisillabi.
[3] Giovanni Pascoli, Canti
di Castelvecchio, Il compagno dei taglialegna, VI.
L’isola
Quanto tempo è passato da quella primavera, quando i Greci giunsero
all’isola incantata e furono trasformati in porci, tutti tranne Ulisse?
Guardando la nave allontanarsi, Circe ricorda ora solo un frammento della
formula magica, composta di rose nere di parole, con la quale aveva
irretito Ulisse e risvegliato il lato oscuro dell’amore.
La nave
Intanto, sulla nave, Ulisse (dall’agile mente) ricorda ancora il giorno
dell’approdo:
«Ecco, ed all’isola Eèa giungemmo, ove Circe abitava,
Circe dai riccioli belli, la Diva possente canora…»[1].
L’isola
Circe aveva evocato quelle parole per incantare e trattenere
(inutilmente!) Ulisse presso di sé; ed ora, abbandonata in un
silenzio di sabbia, continua ostinatamente a bisbigliare sempre lo stesso
residuo ritmico, l’unico frammento che riesce ancora (fino a quando?) a
ricordare.
Il frammento “ritrovato”
dell’ultimo canto di Circe
Nella raccolta poetica Notturlabio, previsioni dall’ombra della
poetessa Simonetta Longo troviamo la lirica La maga:[2]
Non potevo trattenerti
era scritto nelle linee del tempo
nonostante le esche
e le rose nere di parole
che avevo evocato per te
non si può fermare la primavera
e asciugare la sete di nuovi orizzonti
dagli occhi
non potevo trattenerti
ambivi ad una terra da riconquistare
la tua
e io offrivo solo canti notturni
ora guardo la tua nave d’assenza
abbandonarmi
in un silenzio di sabbia
quando giunge l’autunno
non potevo trattenerti
dovevo saperlo
-hai occhi di cielo-
Non si può innamorarsi di te
Ulisse
In questa lirica l’autrice “ricostruisce”, attraverso un frammento
ritmico del canto di Circe, gli ultimi istanti di un incontro (durato una
stagione? un’ora soltanto?).
Questa è la trascrizione del frammento che Circe, invasa dalla
tristezza, ricorda ancora a memoria:
– – + – – – +
–
– + –
Le parole corrispondenti a questo ritmo ancestrale sono:
Non potevo trattenerti, Ulisse
– – + – – – + – || – + – (8 +
3 = 11)
Il secondo verso della lirica La maga contiene dunque il
ritmema predominante, il motivo musicale.
Il ritornello non potevo trattenerti (ripetuto tre volte)
– – + – – – + – (8)
esprime la mancanza (ritmica) di Ulisse
– + – (3)
Perché il Greco, nonostante le esche che la maga aveva
evocato, sta ora abbandonando quella Terra di mezzo che è l’isola Eèa, sospesa
tra il desiderio dell’incantamento e il dover essere ciò che si è. Il destino
di Ulisse era già scritto: ritornare ad Itaca.
La nave
Ulisse ha alzato le vele e naviga verso la sua petrosa Itaca, ora che
il sole sta tramontando sul mare immergendosi tra le onde, e la tenebra giunge.
E, all'improvviso, il marinaio sente un brivido, avverte che la maga sta scrutando l’orizzonte dalla spiaggia. Sente il sibilo, quasi impercettibile,
della sua lingua.
L’isola
Perché Circe non può più trattenere Ulisse, identificabile
con il trisillabo – + –? Perché
era scritto nelle linee || del tempo
– – + – – – + – || – + – (8
+ 3 = 11)
Nel ritornello – – + – – – + – (8) manca appunto
il tempo – + – (3), perché il tempo dell’incanto è fuggito e, con
esso, Ulisse – + – (3).
La nave
Veleggiando verso l’ignoto, Ulisse attende con inquietudine il sorgere
del Sole, mentre la nave va –verso dove? Ascolta il sussurro del mare e le voci
umane dei suoi compagni, che giocano ai dadi, ignari del loro futuro. E dice le
chiare parole:
«Amici, qui non si sa da che parte sia l’alba e il tramonto,
né da che parte il Sole fulgente discende sotterra,
né da che parte sorge…[3]»
Il segreto dell’Isola e i marinai
L’isola misteriosa alle loro spalle, il territorio di Circe, è un luogo
oscuro (i marinai inorridiscono al ricordo):
«Circe, condottili dentro, su seggi e su troni li assise,
cacio per essi intrise, con miele dorato e farina,
con vin di fiamma; e filtri maligni mescé ne l’intriso,
ché della terra nativa ricordo nei cuor non restasse.
Or, poi che Circe ebbe offerto, quegli altri ingoiato l’intriso,
li colpì con una verga, li rinchiuse dentro il porcile;
e tutto avean già l’aspetto di porci: grugnito,
setole, grifo: solo la mente era quella di prima.[4]»
L’isola di Circe è dunque il luogo dell’oblio, della dimenticanza. Ma è
anche il luogo dove la bestialità prende forma. Partendo, i marinai si lasciano
alle spalle il proprio lato oscuro.
La “ricostruzione” del canto di Circe nella lirica La maga
La poetessa Simonetta Longo ricostruisce, a partire dal frammento
ritmico, l’intero canto (nello schema segnaliamo il ritmema predominante della
lirica):
Non potevo
trattenerti –
– + – – – + – (8)
era scritto nelle linee del tempo – – + – – – + – || –
+ – (8+3=11)
nonostante le esche
e le rose nere di parole
che avevo evocato per te
non si può fermare la primavera
e asciugare la sete di nuovi orizzonti
dagli
occhi –
+ – (3)
non potevo
trattenerti –
– + – – – + – (8)
ambivi ad una terra da riconquistare
la
tua –
+ – (3)
e io offrivo solo canti
notturni – – + – – – + – || – + – (8+3=11)
ora guardo la tua nave d’assenza – – + – – – + – || –
+ – (8+3=11)
abbandonarmi
in un silenzio di sabbia
quando giunge l’autunno
non potevo
trattenerti –
– + – – – + – (8)
dovevo saperlo
-hai occhi di cielo-
Non si può | innamorarsi di
te – – + – – – + – || – +
– (8+3=11)
Ulisse – + – (3)
E ora, continuando a guardare la nave allontanarsi dall’Isola, Circe biascica alcune parole: non si può innamorarsi di te, Ulisse; e nel sibilo delle due “esse” è evocato il nome di Ulisse:
sSSSSSs
Note
[1] Odissea X, vv. 135-136, traduzione di Ettore Romagnoli. Il grecista traduce l’esametro omerico utilizzando un settenario o un ottonario con accenti ritmici fissi sulla 1a, 4a e 7a sillaba, seguito da un novenario o, più raramente, da un decasillabo. Rispetto alla soluzione adottata da Giovanni Pascoli, che utilizza un verso lungo composto di diciassette sillabe con accentazione fissa, i versi del Romagnoli risultano meno monotoni all’orecchio.
[2] La maga è un’ecfrasi (il dipinto di riferimento è Circe invidiosa di J. W. Waterhouse). La lirica è proprietà letteraria di Simonetta Longo, pubblicata per gentile concessione dell’autrice.
[3] Odissea X, vv. 189-191, trad. cit.
[4] Odissea X, vv. 232-249, trad. cit. Si segnala il verso“ché della terra nativa ricordo nei cuor non restasse”, che fa pensare a un verso dei Pastori di Gabriele D’Annunzio: “rimanga ne’ cuori esuli a conforto”.